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Raro è davvero raro?

di Sebastiano Crisafulli, Stefano Gelibter e Jacopo Perugini*

 

Le parole hanno un peso, così come le definizioni.

Cosa evoca nell’immaginario collettivo la parola “raro”? Qualcosa di poco comune, sicuramente. Meno frequentemente (o più raramente) questa parola può evocare un qualcosa di non compatto, poco denso, poco fitto: qualcosa di spazioso quindi, come l’etimologia latina del termine sembra suggerire. In ultimo, raro può anche voler dire prezioso, eccezionale.

Quali di questi significati siamo soliti attribuire a questo aggettivo, quando lo affianchiamo alla parola malattia? In altri termini, cosa definisce una malattia come “rara”?

I più risponderanno: è ovvio, stiamo parlando di una malattia molto poco frequente nella popolazione. È una risposta corretta, ma solo in parte. Diverse sono le definizioni di malattia rara in letteratura, ma sono tutte accomunate dalla presenza di numeri. L’Unione Europea e l’Italia, per esempio, definiscono una malattia come rara quando la sua prevalenza (il numero di casi presenti nella popolazione in un dato momento) non supera i 5 casi ogni 10000 abitanti. Effettivamente è un numero molto basso per una malattia, anche se in un paese di circa 60 milioni di abitanti come l’Italia una singola malattia rara può quindi colpire fino a circa 30 mila persone. Le malattie rare, però, prese nel loro insieme non sono affatto poche. Se ne conoscono attualmente tra le 7000 e le 8000. Il risultato? Si stima che in Italia in questo momento ci siano fino a 2 milioni di persone con una diagnosi di malattia rara. Vi sembra ancora un qualcosa di molto poco frequente?

Le malattie rare hanno però anche a che fare con lo spazio. Per un ricercatore che lavora con queste malattie, è uno spazio interminabile da esplorare. Non solo è vastissimo il campo di quello che sappiamo di non sapere, addirittura appare infinita l’estensione di quello che non sappiamo di non sapere: l’Unknown Unkowns del fortunatissimo titolo della XXIII Esposizione Internazionale della Triennale di Milano. Se è vero che questi interminati spazi possono spaurire il cuore, è anche vero che sono il terreno dove si gioca la ricerca più fertile. Un terreno arando il quale possiamo auspicarci di porre una barriera alla nostra infinita ignoranza, migliorando la vita di tante persone che convivono con una diagnosi di malattia rara e delle persone a loro vicine. Uno spazio ben più angusto è invece quello dedicato a queste malattie (e alle persone costrette a conviverci) nella narrazione pubblica. Se le parole – come dicevamo all’inizio – hanno davvero un peso, allora parlare di malattie rare diventa fondamentale. Per conoscere, per finanziare la ricerca, per includere. Ecco che torna ancora il concetto di spazio: lo spazio che le persone con malattie rare hanno diritto di occupare all’interno del vivere comune. È un diritto inalienabile, che va costruito quotidianamente e che passa immancabilmente tramite la condivisione. Richiede impegno, ma non è nulla di eccezionale.

Qualcosa di eccezionale c’è invece nelle malattie rare, ma non è da ricercarsi nei loro complessi meccanismi patogenetici, né nella vastità delle lore possibili manifestazioni cliniche. Lo si trova facilmente nelle storie delle persone che ne sono sfiorate, toccate o travolte. Sono storie dure, estremamente faticose da accettare anche per chi indossa il camice bianco ed è seduto dietro una scrivania ad ascoltarle. Eccezionali e preziosi sono però il coraggio, la resilienza, la forza che dentro vi si trovano. La lotta per una diagnosi e per l’accesso alle cure, la ridefinizione costante del senso del sé, la convivenza con spade di Damocle che sembrano sempre in bilico sopra le proprie teste. Ascoltare questi vissuti – anche se spesso ci fanno sentire piccoli e inadeguati – è il primo passo del prendersi cura.

Cosa definisce, dunque, una malattia rara? La frequenza (bassa e altissima allo stesso tempo), lo spazio (da esplorare, da conquistare), l’eccezionalità (da ascoltare e accogliere).

 

*Neurologo, Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta

*Neurologo, Ospedale Niguarda di Milano

 

 

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di Sebastiano Crisafulli, Stefano Gelibter e Jacopo Perugini*

 

Le parole hanno un peso, così come le definizioni.

Cosa evoca nell’immaginario collettivo la parola “raro”? Qualcosa di poco comune, sicuramente. Meno frequentemente (o più raramente) questa parola può evocare un qualcosa di non compatto, poco denso, poco fitto: qualcosa di spazioso quindi, come l’etimologia latina del termine sembra suggerire. In ultimo, raro può anche voler dire prezioso, eccezionale.

Quali di questi significati siamo soliti attribuire a questo aggettivo, quando lo affianchiamo alla parola malattia? In altri termini, cosa definisce una malattia come “rara”?

I più risponderanno: è ovvio, stiamo parlando di una malattia molto poco frequente nella popolazione. È una risposta corretta, ma solo in parte. Diverse sono le definizioni di malattia rara in letteratura, ma sono tutte accomunate dalla presenza di numeri. L’Unione Europea e l’Italia, per esempio, definiscono una malattia come rara quando la sua prevalenza (il numero di casi presenti nella popolazione in un dato momento) non supera i 5 casi ogni 10000 abitanti. Effettivamente è un numero molto basso per una malattia, anche se in un paese di circa 60 milioni di abitanti come l’Italia una singola malattia rara può quindi colpire fino a circa 30 mila persone. Le malattie rare, però, prese nel loro insieme non sono affatto poche. Se ne conoscono attualmente tra le 7000 e le 8000. Il risultato? Si stima che in Italia in questo momento ci siano fino a 2 milioni di persone con una diagnosi di malattia rara. Vi sembra ancora un qualcosa di molto poco frequente?

Le malattie rare hanno però anche a che fare con lo spazio. Per un ricercatore che lavora con queste malattie, è uno spazio interminabile da esplorare. Non solo è vastissimo il campo di quello che sappiamo di non sapere, addirittura appare infinita l’estensione di quello che non sappiamo di non sapere: l’Unknown Unkowns del fortunatissimo titolo della XXIII Esposizione Internazionale della Triennale di Milano. Se è vero che questi interminati spazi possono spaurire il cuore, è anche vero che sono il terreno dove si gioca la ricerca più fertile. Un terreno arando il quale possiamo auspicarci di porre una barriera alla nostra infinita ignoranza, migliorando la vita di tante persone che convivono con una diagnosi di malattia rara e delle persone a loro vicine. Uno spazio ben più angusto è invece quello dedicato a queste malattie (e alle persone costrette a conviverci) nella narrazione pubblica. Se le parole – come dicevamo all’inizio – hanno davvero un peso, allora parlare di malattie rare diventa fondamentale. Per conoscere, per finanziare la ricerca, per includere. Ecco che torna ancora il concetto di spazio: lo spazio che le persone con malattie rare hanno diritto di occupare all’interno del vivere comune. È un diritto inalienabile, che va costruito quotidianamente e che passa immancabilmente tramite la condivisione. Richiede impegno, ma non è nulla di eccezionale.

Qualcosa di eccezionale c’è invece nelle malattie rare, ma non è da ricercarsi nei loro complessi meccanismi patogenetici, né nella vastità delle lore possibili manifestazioni cliniche. Lo si trova facilmente nelle storie delle persone che ne sono sfiorate, toccate o travolte. Sono storie dure, estremamente faticose da accettare anche per chi indossa il camice bianco ed è seduto dietro una scrivania ad ascoltarle. Eccezionali e preziosi sono però il coraggio, la resilienza, la forza che dentro vi si trovano. La lotta per una diagnosi e per l’accesso alle cure, la ridefinizione costante del senso del sé, la convivenza con spade di Damocle che sembrano sempre in bilico sopra le proprie teste. Ascoltare questi vissuti – anche se spesso ci fanno sentire piccoli e inadeguati – è il primo passo del prendersi cura.

Cosa definisce, dunque, una malattia rara? La frequenza (bassa e altissima allo stesso tempo), lo spazio (da esplorare, da conquistare), l’eccezionalità (da ascoltare e accogliere).

 

*Neurologo, Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta

*Neurologo, Ospedale Niguarda di Milano

 

 

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